La Riforma del Terzo Settore

Il Governo Italiano il 12.5.2014 ha presentato un documento denominato linee guida per la riforma del Terzo Settore, che il Consiglio dei Ministri trasformerà in disegno di legge delega. Il procedimento scelto è la collaudata modalità prevista all’articolo 76 Cost., quella della legge delega da approvare da parte delle camere, cui il governo darà poi concreta attuazione con decreti delegati che dovranno rispettare principi e criteri direttivi indicati nella delega.

L’obiettivo enunciato è ambizioso: si tratta di metter mano alle strutture disciplinate nel Libro I Titolo II del codice civile per armonizzarlo con le successive leggi settoriali e con le numerose norme tributarie, mediante lo strumento del Testo Unico. Ne dovrebbe risultare un pieno coordinamento fra strutture giuridiche, finalità sociali e trattamenti fiscali di favore, nel quadro costituzionale disegnato dagli artt. 2 e 118 Cost., in sintonia con i principi di solidarietà sociale e di sussidiarietà. La riforma del terzo settore, secondo le linee guida, è modello e strumento di realizzazione d’un nuovo Welfare di partecipazione ove il Terzo settore deve diventare il primo per importanza strategica, locomotore trainante l’economia.

Elenchiamo qui di seguito positività, criticità e contraddizioni contenute nelle linee guida:

1) tra gli obiettivi strategici delle riforma troviamo la promozione dei comportamenti donativi e prosociali di cittadini e imprese: un favor per il fundraising, dunque, inteso sia in senso economico che di incentivo all’aumento della sensibilità sociale e alla sua conversione in tempo donato e risorse prestate da cittadini privati e imprese alle organizzazioni non profit. Ciò è positivo in sé, ma dovrà essere accompagnato da politiche di liberalizzazione delle risorse economiche e finanziarie, senza le quali il terzo settore non potrà avere un futuro di crescita.

2) identificare e ritagliare specifici spazi alle strutture giuridiche dell’autentico non profit in modo che emergano soltanto i soggetti, con o senza personalità giuridica, che perseguano finalità pubbliche o di utilità o di promozione sociale: formule che, in assenza d’una traduzione in concrete attività, restano contenitori vuoti che vengono poi riempiti se non dal legislatore con definizioni puntuali dalla giurisprudenza o dalla prassi in modo non sempre appropriato.

3) di conseguenza, eliminare e restituire al mercato profit le figure giuridiche di confine, che opportunisticamente interpretano in modo azzardato alcune norme fiscali di favore, utilizzando la forma associativa come schermo, per poi fornire servizi o beni a costi inferiori rispetto alle aziende concorrenti nel mercato, tutelando invece le imprese che non forzano il disposto normativo e che sono penalizzate da slealtà e scorrettezza e dai comportamenti elusivi di sedicenti enti non profit.

4) Pubblica amministrazione e Terzo settore devono essere le gambe su cui fondare una nuova Welfare society: affermazione condivisibile e ambiziosa, da tradurre in concreto con coraggio e determinazione, eliminando carrozzoni pubblici inefficienti e costosi e abbattendo le barriere d’ingresso al privato sociale che ancora impediscono alle aziende non profit di partecipare alla gestione e all’erogazione dei servizi pubblici essenziali.

5) beni e i servizi di interesse generale devono poter essere offerti da imprese sociali. Diventa indispensabile, a questo punto, definire soggetti e ruolo delle c.d. imprese sociali, struttura giuridica (magari societaria … o deve restare un eterno tabù?) e governance, con possibilità di generare utili e distribuirli ai soci, definendo meglio obiettivi sociali e mezzi da impiegare per raggiungerli, ponderando l’opportunità di introdurre benefici tributari a favore di dette imprese e condizioni per ottenerli.

6) l’idea di rilanciare un Servizio civile nazionale universale, purché non obbligatorio, di durata non eccessiva, fondato sul valore di difesa della Patria pare stimolante e di alto valore formativo. Occorre immaginare una nuova educazione e coscienza civica che si esprimano, al più alto livello, in termini di cittadinanza attiva e consapevole, e questo percorso si snoda attraverso il lavoro nel privato sociale che può generare sensibilità rispetto ai valori fondanti di convivenza civile. Le linee guida lo descrivono come volontario, fino a un massimo di 100.000 unità all’anno per i primi tre anni, formato da giovani –  di età non definita – per una durata minima di otto mesi, prorogabile di quattro mesi, con partecipazione degli stranieri (va benissimo: ma allora il riferimento alla Patria appare fuori luogo) e previsione di benefit per i volontari come: crediti formativi universitari, tirocini universitari e professionali, riconoscimento delle competenze acquisite durante il servizio. Si prevede la possibilità di stipulare accordi tra Regioni e Province Autonome e con le associazioni di categorie degli imprenditori, delle cooperative e del terzo settore, allo scopo di facilitare l’ingresso sul mercato del lavoro dei volontari e infine la possibilità di servire come volontario civile in un altro paese UE in regime di reciprocità.

7) Stabilità al sostegno economico pubblico e privato del terzo settore che sia compatibile con la riduzione al minimo dei rischi di elusione fiscale: obiettivo che se fosse riferito già soltanto al 5 per mille IRPEF, sarebbe già apprezzabile, ma è comprensibile e giusto che la riforma debba essere più ambiziosa al riguardo.

Quanto all’esame sui punti tecnici del progetto, in primo luogo vi è la riforma del codice civile con introduzione o modifica delle norme che riguardano la costituzione degli enti e la loro autonomia statutaria, con particolare riguardo ai soggetti privi di personalità giuridica (associazioni e comitati), definizione dei requisiti sostanziali degli enti ed eventuali limitazioni di attività. Qui si apre un duplice possibile scenario: il legislatore della delega opterà per modelli organizzativi tipici e neutri, come quelli del codice vigente, nel pieno rispetto del principio di neutralità delle forme giuridiche, o verranno specificate e delimitate le finalità perseguibili? E’ un prima domanda che attende risposta. Quanto all’obbligo di trasparenza e di comunicazione economica e sociale all’esterno, non è chiaro se si opterà per l’obbligatorietà del bilancio sociale per tutte le organizzazioni non profit. Il rischio è che si producano nuove certificazioni e certificatori pronti a tuffarsi nel nuovo mercato senza che il bilancio sociale generi più efficacia ed efficienza nei processi aziendali. In tema di responsabilità degli organi di governo ci si domanda se la riforma recherà l’estensione delle norme societarie di responsabilità degli amministratori anche alle organizzazioni del privato sociale, come sarebbe opportuno e come da tempo si richiede. Sul punto delle procedure per il riconoscimento della personalità giuridica, si invoca un intervento legislativo che semplifichi, da un lato, e dall’altro renda uniforme la prassi – oggi eterogenea – delle indicazioni delle prefetture, competenti a pronunziarsi sul riconoscimento ex DPR 361/2000. Occorre stabilire una volta per tutte il capitale sociale minimo richiesto da sottoscrivere e da versare in sede di costituzione avanti al notaio per le associazioni e per le fondazioni che aspirano a ottenere la personalità giuridica, risolvendo così alla radice le incertezze createsi per effetto di differenti interpretazioni – delle prefetture competenti per territorio – del concetto di adeguatezza del patrimonio allo scopo dell’ente da riconoscere. La riforma imminente indica, nelle linee guida, l’obiettivo da raggiungere: semplificazione e snellimento delle procedure anche attraverso la digitalizzazione telematica. Vedremo che cosa significherà in concreto.

Anche sul tema della diversificazione dei modelli organizzativi in ragione della dimensione economica dell’attività, dell’utilizzazione prevalente o rilevante di risorse pubbliche e del coinvolgimento della fede pubblica, le linee guida menzionano il tema senza indicare il criterio da impiegare per diversificare i modelli. Saranno oggetto di intervento anche i criteri di gestione economica delle organizzazioni, l’accertamento e i controlli di autenticità dell’attività svolta e il principio di tenuta di contabilità separate per attività istituzionale e attività imprenditoriale, già previsto da alcune norme fiscali.

Quanto alla codificazione dell’impresa sociale si pone un punto interrogativo, nel silenzio delle linee guida: si concederà finalmente la possibilità di perseguire finalità sociali – magari con controlli seri sui risultati finali – organizzandosi anche in strutture societarie con libertà di produrre, impiegare e destinare gli utili prodotti, compresa la distribuzione di dividendi ai soci? La fondazione società per azioni o l’associazione commerciale diventeranno finalmente realtà, come nel più pragmatico diritto tedesco? Naturalmente, la massima libertà organizzativa, d’impiego e di destinazione finale degli utili dovrà implicare, da una parte, il pieno rispetto dei principi comunitari di libera concorrenza, dall’altra, l’assenza di agevolazioni fiscali dirette o indirette (fatto salvo, a nostro avviso, un ponderato favor fiscale per i donatori). Le indicazioni fornite dal documento governativo sulla riforma non sono, tuttavia, molto chiare. Al punto 9 delle linee guida si parla di superamento della qualifica opzionale di impresa sociale, rendendo non facoltativa ma obbligatoria l’assunzione dello status di impresa sociale per tutte le organizzazioni che ne abbiano le caratteristiche, senza tuttavia indicarle in concreto. Rispetto all’impresa sociale disegnata dal D.Lgs. 155/2006, l’obbligatorietà della qualifica è un’ingombrante novità, la cui ratio è difficile da comprendere facendo riferimento alle caratteristiche dell’impresa sociale delineate nelle stesse linee guida ai successivi punti da 10 a 15. L’impressione che si trae dalla lettura di queste indicazioni è che per implementare la c.d. impresa sociale si voglia clonare l’assetto giuridico delle cooperative sociali, con differenze minime e quasi irrilevanti, ciò che, ovviamente, renderebbe inutile l’intervento in materia.

Si prevede pure una revisione della legge 266/91 sul volontariato sulla base di  una serie di criteri, tra i quali: la formazione alla cittadinanza del volontariato nelle scuole, idea meritevole di educazione civica, se comporta la partecipazione attiva a concrete attività, in forme da studiare con cautela e attenzione; revisione del sistema degli albi regionali e istituzione di un registro nazionale, interessante se si riorganizza su base nazionale tutto il sistema degli albi e degli elenchi, anche per Onlus e associazioni di promozione sociale; riduzione degli adempimenti burocratici e introduzione di modalità adeguate e unitarie di rendicontazione economica e sociale: non si può non esser d’accordo, purché la rendicontazione non diventi ulteriore carico di burocrazia per le OdV; introduzione di criteri più trasparenti nel sistema di affidamento in convenzione dei servizi al volontariato, promozione e riorganizzazione del sistema dei centri di servizio quali strumenti di sostegno e supporto alle associazioni di volontariato. La revisione della legge 383/2000 sulle associazioni di promozione sociale dovrà invece razionalizzare le modalità di iscrizione ai registri, ridefinire l’Osservatorio Nazionale dell’Associazionismo – che è stato molto criticato: sarà meglio eliminarlo, con i relativi sprechi? – predisporre una migliore definizione delle modalità di selezione delle iniziative e dei progetti di formazione e sviluppo e infine armonizzare il regime delle agevolazioni fiscali rispetto a quello di altre categorie di enti non profit.

Infine, si ripropone la istituzione di una vera e propria Authority del Terzo Settore. In mancanza di indicazioni anche solo sintetiche, non si può far altro che auspicare si tratti di un’Autorità davvero terza e indipendente, formata da personale di alta competenza e con dotazione patrimoniale adeguata, che abbia forti poteri di controllo e non solo di moral suasion sulle organizzazioni non profit e che si imponga come punto di riferimento concreto di un mondo che il legislatore intende riportare alla giusta dimensione, intraprendendo l’ambizioso progetto del Testo Unico / Codice degli enti non profit che coordini le numerose discipline esistenti, fiscali e civilistiche, oggetto di revisione. Un esame a parte meritano i punti che trattano l’ormai celebre 5 x 1000 IRPEF: di esso si parla come mezzo di stabilità e di ampliamento delle forme di sostegno economico pubblico e privato al Terzo Settore e se ne prevede il potenziamento. La riforma prevede la revisione dell’ambito soggettivo, l’identificazione stabile dei beneficiari del 5×1000 che andranno inseriti in un elenco liberamente consultabile, con l’obbligo di pubblicazione dei bilanci secondo una schema standard; si prevede pure la possibilità di destinare anche il 5×1000 delle c.d. imposte sostitutive per i contribuenti minimi, finora esclusa. Infine, la semplificazione delle procedure di calcolo ed erogazione che oggi comportano due anni di attesa per gli aventi diritto.

Tra i mezzi di stabilizzazione del sostegno economico al terzo settore sono inclusi anche i titoli di solidarietà di cui al D.Lgs. 460/97, l’estensione dell’equity crowdfunding, un voucher universale per i servizi alla persona e alla famiglia (c.d. secondo welfare, da definire), il riassetto dei vantaggi fiscali su imposte dirette e indirette a favore del terzo settore chiarendo finalmente il concetto di modalità non commerciale (proposito assai ambizioso … ci riusciranno senza far danni?), trattamento di favor fiscale per i titoli finanziari etici – da definire – nuove modalità di assegnazione in convenzione d’uso di immobili pubblici inutilizzati a soggetti non profit e infine la riforma dell’attuale meccanismo di destinazione e di assegnazione dei beni mobili e immobili confiscati alla criminalità, che dovrà coinvolgere maggiormente le organizzazioni non profit nella gestione di detti beni, nel quadro di iniziative di imprenditoria sociale.

Avv. Prof. Vincenzo Giarmoleo

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